Dopo quasi 10 anni di crisi le disuguaglianze sono aumentate ancora a vantaggio del famoso 1% che ha incrementato ulteriormente la sua quota di reddito, il suo patrimonio, la sua esosa ricchezza e il suo potere non solo economico, ma anche e soprattutto politico.
Visione del mondo I dati divulgati da Oxfam, nel suo rapporto di ricerca annuale Working for The Few, parlano chiaro. Uno di essi è più che scandaloso: il reddito degli 85 Paperoni (gli uomini più ricchi della terra) equivale a quello di metà della popolazione mondiale. Persino dal summit di Davos, dove a gennaio come ogni anno si sono riuniti quelli del World economic forum (Wef), cioè le ricche élite mondiali, è stato lanciato l’allarme: “i rischi che il mondo si troverà quest’anno ad affrontare riguarderanno da una parte la partita ambientale e dall’altra quella della disuguaglianza economica”. Se persino i ricchi si preoccupano della loro ricchezza vuol dire che siamo messi davvero male. Anche in Italia, purtroppo, le cose non vanno affatto nella direzione di un restringimento della forbice delle disuguaglianze: il documento recentemente elaborato dal McKinsey Global Institute tratteggia un quadro tutt’altro che lusinghiero dell’Italia dove dal 2005 al 2014 il 97 per cento delle famiglie ha sperimentato un drastico calo dei redditi, senza contare gli ottimi affari delle mafie e la solita piaga della corruzione. Per non parlare dell’evasione fiscale. Tanto che Oxfam si domanda com’è potuto accadere che il 20% degli italiani abbia ormai nelle proprie tasche ben il 69% della ricchezza del paese: 6.881 miliardi su 9.973. Più o meno come ai tempi di Dante, quando il 70 per cento della ricchezza era in mano al 10 per cento della popolazione.
«L’attenzione che Oxfam rivolge alla distribuzione della ricchezza è legata all’importanza che la condizione patrimoniale riveste per la vita delle fasce più povere della popolazione di un paese – spiega Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International –. Nella nostra visione la ricchezza netta fornisce da una parte una misura della capacità di resistere a shock improvvisi come raccolti scarsi o spese mediche impreviste, dall’altra è indicativa della capacità delle persone di investire nel futuro e nel miglioramento della qualità della propria vita». In ricchezze e in povertà Quello del “numero dei miliardari che possiedono la ricchezza netta della metà più povera del pianeta” è per Oxfam il dato che meglio rappresenta “l’estremizzazione della sconcertante statistica sull’insostenibile concentrazione della ricchezza su scala globale” che vede dal 2015 l’1% più ricco della popolazione mondiale possedere più del restante 99 per cento. Un dato suscettibile solo a fluttuazioni marginali, secondo Credit Suisse, una banca che quando si tratta di numeri è molto precisa: dal 2010 in poi il 50% più povero non avrebbe mai posseduto oltre l’1,5% dello stock della ricchezza globale, mentre la quota dell’1% più ricco non sarebbe mai scesa sotto il 46.
Per l’Italia il dato 2016 di Credit Suisse rileva che la metà più povera della popolazione era in possesso di appena il 7,3% della ricchezza nazionale netta. «Le cause delle disuguaglianze attuali sono sicuramente la combinazione tra globalizzazione e innovazione tecnologica che ha aumentato il potere contrattuale dei datori di lavoro sui lavoratori perché i lavoratori ad alto costo dei paesi ricchi sono entrati in concorrenza con i lavoratori a basso costo dei paesi poveri – chiarisce Leonardo Becchetti, docente di economia all’Università di Roma Tor Vergata –. Questo ha prodotto una riduzione quota salari sul pil e quindi diseguaglianze anche tra i lavoratori. In più l’innovazione tecnologica è stata un ulteriore fattore di aumento delle disuguaglianze perché ogni volta che avviene innovazione si concentra ricchezza nelle mani dei proprietari dei nuovi beni capitali». Ma perché le disuguaglianze economiche, oltre ad essere una delle principali cause della lunga crisi, ne sono anche la conseguenza lo spiega Emiliano Brancaccio, docente di economia politica all’Università del Sannio. «Le cause di questo fenomeno – dice Brancaccio – vanno individuate nella deregolamentazione dei mercati del lavoro e finanziari che ha determinato uno spostamento dei rapporti di forza a favore dei possessori di capitali e di chi percepisce rendite e profitti».