Datagate, Facebook e Cambridge Analytica ci rimette la pelle.

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Datagate, Facebook e Cambridge Analytica ci rimette la pelle.

Facebook ammette: «Gli utenti coinvolti sono 87 milioni». Zuckerberg: mio errore.

L’onda d’urto scatenata dal caso “Datagate” è stata potentissima.

Ora, dopo il terremoto internazionale che ha fatto tremare il trono del re dei social network, Marck Zuckerberg, e le seggiole di milioni di utenti Facebook, la polvere delle macerie si sta lentamente abbassando e, sebbene non si possa individuare un sopravvissuto uscito totalmente indenne, sicuramente abbiamo una vittima illustre: Cambridge Analytica. Il pasticcio sui dati personali degli utenti, diffusi a soggetti terzi per finalità diverse da quelle indicate nell’informativa sulla privacy che ha coinvolto Facebook e Cambridge Analytica, ha provocato una vera emorragia di clienti per quest’ultima che si ritrova nel contempo a dover far fronte a costose spese legali per le indagini necessarie a chiarire l’accaduto.

Datagate, Facebook e Cambridge Analytica ci rimette la pelle.
Datagate, Facebook e Cambridge Analytica ci rimette la pelle.

Risultato a sorpresa è stato l’annuncio diffuso: Cambridge Analytica ha avviato le procedure di insolvenza in Gran Bretagna e ha annunciato lo stop immediato di tutte le sue attività. Tradotto in un linguaggio più immediato, la società sta chiudendo i battenti. Non si potrà più, inoltre, cercare profili altrui usando email e numeri di telefono, opzione che garantiva l’accesso a troppe informazioni personali. E ancora, non verranno più archiviati i dati sull’orario delle chiamate. E quelli sugli Sms e le telefonate tramite Messenger per Android e Facebook Lite non verranno conservati per più di un anno (nessun cenno, invece, alla scansione degli allegati delle conversazioni di Messenger). Per districare la matassa di privacy, hate speech o fake news «ci vorranno anni», ha messo le mani avanti, ricordando — mentre rispondeva a una domanda sui troll russi — che i dipendenti di Menlo Park dedicati alla sicurezza saranno 20 mila entro fine anno. Secondo i dati comunicati dal social network, in Italia a scaricare l’app del ricercatore Aleksandr Kogan sono state 57 persone, che hanno concesso l’accesso alle informazioni di 214.077 amici. Sono 214.134, quindi, i connazionali potenzialmente coinvolti nell’attività di Cambridge Analytica, che nel 2012 aveva lavorato con un partito italiano «che aveva avuto successo l’ultima volta negli anni 80». Dopo gli Usa, i Paesi maggiormente colpiti dal flusso improprio di informazioni sono le Filippine, l’Indonesia e, con un milione di utenti, il Regno Unito.

Datagate, Facebook e Cambridge Analytica

Nel resto della lista delle dieci zone più interessate non compare l’Europa, in cui il 25 maggio entrerà in vigore il nuovo regolamento per la protezione dei dati personali: Zuckerberg ha chiarito — smentendo le voci circolate mercoledì — che quanto previsto in termini di trasparenza o portabilità dei dati verrà applicato anche nel resto del mondo.“Negli ultimi mesi”, si legge nella nota sul sito di Cambridge Analytica, “siamo stati oggetto di numerose accuse infondate e, nonostante i nostri sforzi di rettifica, siamo stati denigrati per attività che non solo sono legali ma sono anche ampiamente accettate come componente standard della pubblicità online sia nell’arena politica sia in quella commerciale”. La situazione della società è stata ulteriormente aggravata da un video diffuso dalla tv inglese Channel 4 che ritraeva il suo amministratore delegato, Alexander Nix, ora sollevato dall’incarico, descrivere le tattiche utilizzate durante l’ultima campagna elettorale americana per far vincere i clienti della società, tra cui figura il presidente Donald Trump. Uno scandalo troppo grande, difficile da sostenere sia a livello economico, sia a livello di reputazione. E così tutti a fare gli scatoloni, managers e dipendenti, e da domani uffici chiusi. Quelli di Cambridge Analytica, ovviamente. Perché Menlo Park, in California, dove ha sede Facebook, tutto scorre come sempre, ognuno al suo posto, facendo finta di “aggiustare le cose” in modo da rispettare i nuovi regolamenti sulla privacy e “tutelare gli utenti”.

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